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           Video "Il carretto siciliano"

    

        Il carretto siciliano

 

Per l'elaborazione delle relative sezioni sono stati visionati diversi siti internet e bibliografie varie, nonché interviste a vecchi carrettieri, pupari, collezionisti, cultori e appassionati d'ogni genere, a tutti un sentito ringraziamento. Il lavoro resta aperto ad ogni possibile precisazione e integrazione che l'utenza vorrà segnalare.

 

Il carro

Il carro è un veicolo a due o quattro ruote, dedicato al trasporto di merci o persone, generalmente a trazione animale. Quello a quattro ruote, in uso dall'età del bronzo, (3500 a.C. al 1200 a.C.) è stato per oltre due millenni privo di apparato sterzante, per cui veniva utilizzato solo in percorsi alquanto rettilinei. In generale, si può dire che il carro a due ruote è destinato alla trazione equina ed è più veloce, quello a quattro ruote è a trazione bovina ed è più lenta, ma capace di trasportare pesi maggiori. Tra il 2000 e il 1500 a.C. appaiono le prime ruote a raggi, mentre la struttura del carro diventò più leggera e funzionale. A Roma il carro fu introdotto dagli Etruschi, ma si diffuse soprattutto nei periodi repubblicano e imperiale. I carri sin dall’antichità sono stati decorati in ogni loro parte.

Per la maggior parte della propria storia il carro è stato mezzo agricolo e stradale, che progredendo soppiantò carrozze, lettighe e portantine anche per il trasporto delle persone. Con l’evolversi dei sistemi di comunicazioni stradali e ferroviarie, il carro agricolo assume aspetti caratteristici e peculiari, divenendo oggetto emblematico delle diverse tradizioni locali. Infatti, i carri da trasporto nelle diverse regioni, rappresentano elementi tipici del folclore e spesso sono tra le cose migliori dell’arte popolare.

 

Il carretto in Sicilia

Il carretto siciliano è un veicolo a due ruote senza molle, destinato al trasporto di carichi di modesto peso e trainato da un solo animale (equino) al quale viene affidata la funzione di tiro e di sostegno con la groppa di una parte del peso. Alcuni affermano che il carretto siciliano si è diffuso, con le sue caratteristiche tipiche, intorno ai primi anni dell’ottocento. La sua diffusione è connessa alla storia economica di un’isola in cui divenne sempre più pressante la necessità di trasportare uomini e materiali dalla città alle campagne e viceversa e soprattutto per trasportare i prodotti agricoli dai luoghi di produzione a quelli di distribuzione o di consumo.

Durante la dominazione araba, la diffusione del carretto fu ostacolata dalla realizzazione di strade, vicoli e cortili di modeste larghezze che ne ostacolavano il passaggio. Per diversi secoli il trasporto delle merci è avvenuto a dorso di animali da soma, su apposite mulattiere al servizio dei grandi proprietari terrieri. Ma anche su carri senza ruote, come per esempio lo "stràscinu" o stràula, che era una specie di slitta.

Le poche strade realizzate erano dei veri sentieri a fondo naturale, con ripide salite e curve a gomito, fortemente accidentate, con numerosi dossi e fosse, da limitare l’uso del carretto, anche se appositamente realizzato con ruote molto alte. Solo dopo il 1840 il governo borbonico elaborò un programma di viabilità regionale, grazie alle nuove tecniche di costruzione di Mac Adam, la cui realizzazione fu molto lenta e ricca di ostacoli, basti pensare che nemmeno sul Simeto c’era un ponte e i muli e i bagagli dovevano attraversare il fiume su zattere. Ciò nonostante, in quegli anni l’economia isolana ebbe un notevole impulso, grazie alla soppressione dei dazi sulle esportazioni e all’aumento di quelli sulle importazioni, dando vita a nuove attività artigianali e artistici (tra i quali la pitturazione dei carretti e l’opera dei pupi).

Anche dopo l’Unità d’Italia, la costruzione delle strade fu piuttosto lenta, anche perché le autorità locali che erano sotto l’influenza dei proprietari terrieri, non fecero nulla per recuperare le “regie" trazzere (strade a fondo naturale della larghezza di m.37,68, destinati prevalentemente alla transumanza degli animali da pascolo), che nel tempo sono state illegalmente privatizzate per circa un terzo.

In un tale contesto, furono costruite, piuttosto lentamente, delle strade di sufficiente ampiezza, che facilitarono la diffusione del carretto.

Il Senatore Domenico Bonaccorsi di Casalotto, principe di Reburdone, Presidente dell’Amministrazione provinciale di Catania dal 1872 al 1895, il 19/12/1886 inaugurò il primo ponte in ferro sul fiume Simeto, in corrispondenza della contrada “Primosole”. Fino ad allora i carrettieri e i viaggiatori attraversavano il fiume a guado, con carri o cavalcature, o su delle chiatte (giarrette).

Con l’evolversi del sistema viario, i collegamenti commerciali tra le città e le campagne passarono nelle mani dei carrettieri, ponendo fine all’attività dei vurdunara (trasportatori a dosso di animali).
Il carretto nato come mezzo di trasporto, ben presto diventa un “veicolo di trasmissione culturale” per i siciliani, perché in esso, tramite la scultura e la pittura vengono rappresentati momenti della storia siciliana, epica, ed altro ancora.

Il carretto ha avuto una forte influenza sui livelli sociali: chi lo possedeva aveva un bene e il suo stato sociale era superiore a quello di un “iurnataru” che invece non poteva averlo. Le persone meno ricche proprietari di carretti si limitavano a qualche decorazione per il semplice motivo di preservare il legno dall’azione corrosiva degli agenti atmosferici e dei tarli; mentre i più facoltosi affidavano il proprio carretto a dei veri e propri pittori e scultori per curare al meglio l’aspetto esteriore del mezzo.

Va ricordato che i carrettieri erano del tutto analfabeti o avevano frequentato solo le prime classi elementari, poiché avevano incominciato a lavorare fin da piccoli. Essi svolgevano il lavoro per conto di commercianti o costruttori e solo raramente lavoravano in proprio; la forma di pagamento era “a viaggiu” ed era correlato al tipo di tragitto da percorrere. Meno frequente ma più conveniente per i carrettieri, era il pagamento “a iurnata”.
Quando si incominciarono ad asfaltare le strade e a diffondere i mezzi meccanici, i carrettieri diventano camionisti o conduttori di motofurgoni, trasferendo sui nuovi mezzi il repertorio pittorico dei carretti. 

 

 

 

 

 

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        Struttura del carretto.

Il carretto è composto da quattro parti principali: le ruote, la cassa (parte contenitiva), le stanghe e il gruppo portante centrale detta cascia di fusu.

La parte centrale della ruota è costituita da un pezzo cilindrico in legno detto mozzo ('u miòlu), dello spesso di cm 27 e diametro di cm.22, dotato di 12 fori per l’innesto dei raggi chiamati iammuzzi (jammi = gambe), spesso arricchiti da intagli a fitte sezioni parallele (impòsti) o addirittura soggetti scolpiti quali fiori, aquile, sirene, o teste di paladino. Nella parte interna del mozzo viene incastrata la boccola, cioè un tubo in bronzo (a viscida o usciula), a sezione conica, per l’inserimento sull’asse in ferro (fusu) del carretto. La corona o parte esterna della ruota è composta da 6 pezzi curvilinee (cuvvi), che costituiscono la circonferenza della ruota, tenuti insieme dal cerchione in ferro, 'u circuni. Il mozzo è bloccato al fusu, per mezzo di un dado a vite detto rannula. 'U fusu è dotato di due rondelle grossolane che permettono alla ruota un certo gioco, con emissione di un rumore caratteristico (('u toccu o lu tonu giustu), senza il quale il carretto non ha alcun valore.

Il diametro medio delle ruote è di m. 1,40.

Le stanghe (asti), della lunghezza di m.3,70, sono a sezione rettangolare nella parte posteriore e centrale, ed ellittica nella parte anteriore, il cui terminale porta un anello in ferro (ucchiali o occhiu d'asta) per l’aggancio al basto. Fra le aste e sotto 'i tavulazzi sono montate due parti in legno chiamate 'i chiavi, una anteriore ed una posteriore. La prima è una semplice barra ricurva verso il basso, la seconda di forma rettangolare consiste in un bassorilievo intagliato rappresentante una scena, solitamente cavalleresca, che può assumere diversi gradi di pregevolezza. Spesso nella chiavi posteriore si riportano i nomi dell’artigiano carradore e di chi ne ha commissionato la realizzazione.

Nella parte terminale del carretto troviamo 'a chiavi di ferru, che sorregge le aste.

Nella cassa (càscia di carrettu), distinguiamo: 'u funnu di càscia, cioè il pianale di carico prolungato anteriormente e posteriormente da due tavole trasversali ('u tavulazzu d’avanti e 'u tavulazzu d’arreri); le due sponde fisse del carretto ('i masciddàra, dal siciliano mascidda = mascella), e un portello posteriore removibile ('u puttèddu) per agevolare le operazioni di carico e scarico. Ogni masciddàru è suddiviso equamente in due scacchi (i riquadri in cui vengono dipinte le scene); nel puttèddu invece vi è uno scacco centrale e due laterali più piccoli. Gli scacchi sono divisi da segmenti verticali che congiungono i pannelli al funnu di cascia: 6 pioli in legno chiamati barrùni equamente divisi fra masciddàri e puttèddu. Sulla parte centrale del masciddàru è presente 'u cintùni, staffone in metallo.

I barrùni spesso sono intagliati e presentano in alto 'a tistuzza, testa di paladino o di popolano, rinforzati nella parte basale con un angolino in ferro (caccagneddu). La càscia di carrettu è sostenuta dai chiumazzeddi, tre robusti cuscinetti in legno, assi a sezione quadrata, opportunamente forate nelle parti terminali per l'incastro del piolo (ammicciatina do barruni e chiumazzeddu). L'ancoraggio dei chiumazzeddi alle aste è affidata a delle staffe in ferro (iaffuneddi). 

 

 

La càscia ha una larghezza di cm. 103-105 e una profondità di cm. 125-128, a cui vanno aggiunti cm. 20-22 per ciascun tavulazzu. La cascia di fusu è costituita: da un asse in ferro omogeneo, filettato ai due estremi; da una parte in legno intagliato sormontata da un arabesco di ferro e da due mensole (mensuli) che congiungono il fusu con la cascia. Nei carretti patrunàli meno pregiati, la preziosa cascia di fusu viene sostituita dalle balestre. Tra le aste, e sotto la cassa, appena dietro la chiavi d’avanti, spesso è montata una rete in corda ('u rituni) per contenere a vacila (bacile per l’abbeveraggio dell’animale), 'a sacchina (sacca di tela) e 'a coffa (cesta realizzata con foglie di palma nana intrecciate), ove si mette la biada per l’alimentazione dell’animale.

Infine, possiamo trovare la barra di frenu, posta sotto il funnu di cascia e all’interno della ruota, che viene azionata dal carrettiere mediante un meccanismo a vite.

A corredo del carretto troviamo l’ombrellone, che viene sorretto da una scultura in legno ('a ballarina o San Giorgio Cavaliere) ancorata al fusu.

         

                  

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Materiali e attrezzi

Le parti che compongono il carretto siciliano vengono lavorate, perfezionate e assemblate in modo esclusivamente artigianale, e possono essere ricavate dai seguenti tipi di legno:
- noce: per la corona e il mozzo della ruota, le sponde ed i travetti;
- frassino: per i pioli (barruni);
- faggio: per le mensole e le stanche (asti);
- abete: per tutto il resto.
Gli attrezzi utilizzati, spesso di tipo artigianale, sono oltre 100: scappelli,  mezze lime, raspe, lime, martelli, trapani, chiodi schiacciati, tornio, serra a nastro, pialla, serra a manico, stringenti, tenaglie, pinze, bulino (punteruolo), rincigghiu, ascia, compassi, cogna, sgorbia, chianozzu, paletta, pialletta,  ecc.

Stili del carretto

Il carretto assume caratteristiche diverse a seconda della zona in cui viene prodotto. Nel palermitano il carretto presenta sponde trapezoidali, una tinta di fondo gialla e decorazioni prevalentemente geometriche. I temi rappresentati sugli scacchi variano tra cavalleresco e religioso, prevalgono le tonalità rosse, gialle, verdi e blu, le sfumature sono ridotte all'essenziale e la prospettiva è bidimensionale. Spesso nel palermitano le balestre sono preferite alla cascia di fusu, intagli e pitture mantengono l'aspetto naif tipico del carretto siciliano.

Nel catanese, il carretto è più piccolo, le sponde sono rettangolari, la tinta di fondo rossa, gli intagli e le decorazioni si presentano più ricercati e meglio rifiniti, allontanandosi dallo stile semplice del palermitano per ottenere una raffinatezza maggiore. Ad esempio, l’arabesco della Cascia di fusu nel palermitano si compone da una sorta di uncini, mentre nel catanese con il ferro vengono rappresentati pupi, draghi, sirene e paesaggi reali o astratti (suspiri).

Nelle produzioni più moderne i quadri contemplano la tridimenzionalità prospettica, la gamma di tonalità si arricchisce, le sfumature e i chiaroscuri si fanno più incisivi.
Meno conosciuto è lo stile ragusano (Val di Noto), in cui il carretto presenta una struttura simile al catanese, ma si mira all’essenziale e nelle tonalità si distingue per la sua caratteristica gradazione scura.

Le maestranze del carretto

Alla realizzazione del carretto siciliano partecipano diversi artigiani, ciascuno col proprio mestiere.

La prima fase è competenza del carradore, colui che costruisce il carretto e ne intaglia i fregi (u carruzzeri). Altro compito importante del carradore è la ferratura a fuoco della ruota, pratica particolarmente pittoresca.

La seconda fase è affidata al fabbroferraio ('u firraru), che forgia le parti metalliche quali i cintuni, le estremità delle aste ("occhiali", cioè gli anelli che servono per attaccare il cavallo alle aste) e il pregiato arabesco della cascia di fusu.
Lo scultore si occupa delle parti in legno, il fabbro di quella in ferro, il carradore mette insieme le due parti e il pittore (figurinista) dà un tocco di vivacità al tutto.

I due pezzi di un carretto che testimoniano l’arte di uno scultore sono: “a chiavi” e “a cascia di fusu”; queste sono le parti più lavorate sia per quanto riguarda il legno, (chiavi e cascia di fusu ) sia per quanto riguarda il ferro (cascia di fusu). “ A chiavi”, soprattutto, è quel pezzo di legno che permette allo scultore di sbizzarrirsi come meglio crede, senza crearsi problemi di solidità del pezzo in quanto ha uno scopo esclusivamente decorativo. Inizialmente presero il sopravvento le scene religiose, ma in seguito gli scultori s’ispirarono anche alla mitologia classica e a scene epico-cavalleresche.

Il fonditore ('u ramaturi) prepara le boccole, 'i vìsciuli, che sono due scatole metalliche a forma di tronco di cono, che vanno incastrate nei mozzi delle ruote, realizzate con una lega speciale, composta da 78 parti di rame e 22 di stagno.

Quando la costruzione del carretto è ultimata il lavoro passa al decoratore e al pittore, che vestono il carretto di colore e vivacità. Il primo decora con motivi geometrici le superfici della cassa e dei davanzali, il secondo procede prima alla "in doratura" cioè il carretto è trattato con due o tre mani di colore e poi dipinge le fiancate, rappresentanti le gesta cavalleresche, mitologiche, storiche o romanzesche che caratterizzano il carretto siciliano.

I carretti interi, cercati in aperta campagna e sapientemente restaurati, trovano la propria collocazione ideale assieme a decine di altri pezzi (fiancate, casce, fusi, chiavi…) ripescate da chissà dove, o create di sana pianta. E sono autentici trionfi di colore, i carretti ancor oggi creati nelle nostre poche e gloriose botteghe, dove la tradizione resiste, con una tenacia tutta etnea. Figure come quella di Domenico Di Mauro e di Nerina Chiarenza (figlia di Sebastiano) sono ormai circondate da un’aura quasi leggendaria: depositari di un’arte che va scomparendo, tramandando gesti e conoscenze che non si spiegano a parole.

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Pittura del carretto

Fino alla fine del Settecento nel dipingere il carro non si andava oltre una sola mano di colore (blu, grigio, giallo), perché ci si rendeva conto che era necessario proteggerlo dal sole e dalla pioggia sia durante i viaggi, sia quando veniva lasciato fermo fuori casa. Poi così come racconta l’etnologo Giuseppe Pitrè qualcosa cambiò: “I carretti, sopra un fondo generale di color giallo nei quattro scompartimenti delle due fiancate, portavano rozzi disegni di santi, di teste e di cesti con fiori e frutta in colore rosso e di fette di mellone.” Insomma, all’inizio il famoso carretto ha poco più di qualche ingenuo fregio. Poi arrivò il marketing. E così i caramellai, gelatieri, arrotini, bibitari e ambulanti in genere pensarono bene di attirare l’attenzione di bimbi e clienti con pitture sempre più elaborate e appariscenti: tutte da ammirare e invidiare. L’elemento scaramantico poi, conquistò presto il trono: a San Giorgio che uccide il drago il posto d’onore, il pizzu, ossia il centro del travetto steso sull’asse delle ruote, non tralasciando di assicurarsi lo sguardo benevolo dal Paradiso e scongiurare il malocchio degli iettatori.

Nessuno degli artisti del pennello restò estraneo al grande movimento di elaborazione iconografica che iniziò a prendere corpo trasformandosi nel giro di poche generazioni in un grande fenome­no di costume: dal pittore di cartelli per i pupari, con il suo folto corteo dei vari Orlando, Carlo Magno, Rinaldo, ai pincisanti e pittori di ex voto che rubarono al repertorio religioso spunti e idee da trasportare sul legno, dando origine a delle vere e proprie correnti artistiche, con i carretti a catanisa, a sant’antunisa, a bruntisa.

Nel volgere di pochi lustri ogni risvolto, anche il più inatteso, dell’immaginario collettivo venne metabolizzato e reinterpretato secondo il gusto del maestro: episodi della conquista normanna, crociate, rivolta dei vespri, sbarchi garibaldini e guerre d’oltremare, il dramma della gelosia della Cavalleria rusticana, narrazioni epiche, leggende. Cosicché, a tenere compagnia ai carrettieri durante il viaggio c’erano storie d’amore e duelli sanguinosi, le prodezze dei Mille e quel­le dei Paladini, lotte contadine e passioni da melodramma, santi e faraglioni, frutta e angioletti e anche fatti di cronaca.

I colori adoperati erano quelli primari (il giallo, il rosso, il verde, l’arancione, l’oro e l’argento) e le scene, nel migliore dei casi, sembravano uscire dal legno per essere rivissute come in un piccolo teatrino. Nelle sponde, nelle ruote, nella cassa vi erano i colori del sole siciliano, dello zolfo, delle arance e dei limoni, del cielo e del mare, della lava dell'Etna e dei ficodindia.

Così il carretto rappresentava una sintesi delle civiltà mediterranee che furono presenti nell'isola: i colori arabi, gli arabeschi turco-bizantini, i costumi dei Greci, le cianciane spagnole.

Si realizzarono così delle autentiche opere d’arte, chiamando a raccolta maestri ebanisti, abili ferrai ed eccellenti pittori, per coniugare amabilmente arabeschi in legno e rilievi in ferro battuto, lasciando il tocco finale a una moltitudine di ricami, ninnoli, pennacchi di lunghe bellissime piume colorate.

I carretti e i cavalli, in poco tempo, diventarono i mezzi attraverso i quali i carrettieri potevano affermare le loro identità e volontà di potenza.

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Bardature e paramenti

Quando si guarda un carretto siciliano in parata, le parti che saltano subito all’occhio sono i pennacchi che unitamente agli altri ornamenti fanno capire che trattasi di armiggi “da festa”, certamente molto più ricchi e vistosi di quelli “giornalieri”.

La realizzazione di “l’armiggi“ (bardature e pennacchi) è opera di grandi maestri: u siddunaru prepara il basto (sidduni) e i pennacchi, u guarnamintaru o varnamintaru prepara tutti gli altri ornamenti (pettorale, testiera, cavezzone, sottopancia, groppiera).

Gli “armiggi da festa” sono un vero spettacolo, un arcobaleno di colori: nastri, fiocchetti e frange di lana o di seta, piccoli specchi, stelline in oro e argento, chiodi di rame rosso o bianco, a testa rotonda o quadrata; campanacci e cianciane argentati o dorati; cinghie, pettorali e finimenti speciali. Sui paraocchi ci sono i personaggi principali rappresentati sulle sponde, personaggi diversi o una doppia rappresentazione del Santo protettore del carrettiere.
Tutta la bardatura (insieme di attrezzi e cinghie per l'attacco del cavallo al carretto) è coronata da due pennacchi, uno sulla testiera e uno sul basto: un vivace mescolarsi di piume colorate di fagiano, cappone, oca,
pavone.

    

         

         I maestri dei carretti

Tra i costruttori di carretti (carradori) si ricordano:
 - in Catania: Giovanni Faro e i suoi tre discepoli - Nino Leo (detto Badda, intorno al 1875 costruì un carretto, servito da modello definitivo) e Francesco e Salvatore Albanese - Puddu Leotta (U lupu), il palermitano Giuseppe Gerardi (Piddu ‘u Palermitànu), Antonio Nicolosi (morto intorno al 1920), Orazio Nicosia (detto Aràzziu carrapipi, morto intorno al 1956), Turi Quartarone (1878?-1964?) e il suo allievo Salvatore Musso, Ciccino Politano (1901-1987), Rosario Buccheri,  Salvatore e Concetto Santapaola; a Ognina Concetto Cappadonna;
 - in Belpasso: Orazio Galvagna e Domenico Morabito;
 - in Aci Sant’Antonio: Gaetano Bottino, i Fratelli Michele e Salvatore D’Agata, Alfio Ferrara, Settimo D'Agata, Rosario Torrisi, Salvatore Chiarenza, Sebastiano Chiarenza (padre di Nerina);
 - in Paternò: i fratelli Astuti Simone (don Simone, 1896-1967), Francesco e Liberto (1898-1945), Concetto Messina (1871-1954), Salvatore Distefano, Francesco Nicolosi, Turi Bellissimo, don Carmelo Brasile (testa di tumminu, 1896-?),  Salvatore Cosentino, Turi Ciancitto (baccalaru, 1890-1978), Pippo Fallica, Ciccio Aiello, Virgillito (tramola);
 - in Viagrande Ninu Campanile, Alfio Occhidicrasto;
 - ed ancora Don Paolino di Giarre; Luigi Mossuto (mussutu) di Grammichele; in Adrano Rosario Cùscani; in Scordia Giuseppe Valenti e i fratelli Mario e Gaetano Mangano; in Vizzini Salvatore Migliore e Raffaele Vaccaro; Nicolosi Salvatore.
Tra gli scultori-intagliatori si ricordano: Ignazio Russo ('u Palicchiu), intagliatore di assoluta bravura, Antonio e Alfio Ferrara, Vito Giuffrida, Antonino Di Mauro (soprannominato Campanile) di Viagrande, Francesco D'Amico, Domenico Di Mauro (omonimo e cugino del noto maestro pittore), Turi Chiarenza (fratello di Nerina), Vincenzo Di Giovanni, Salvatore Murabito, Gaetano Nicolosi.
Oggi si possono ricordare: Alfio Pulvirenti e il suo allievo Carmelo Carciotto di Belpasso, gli scultori Sarino D’Agata, Lorenzo Salamone, Biagio Foti, ….
Tra i fabbri carradori (firràri) vanno ricordati: Vincenzo Sciacca, i fratelli Pasquale e Angelo D’Amico, Giovanni D’Emanuele (Bafàcchia), don Salvatore Esposito, detto "peri chiatti", i fratelli Concetto e Vincenzo Santapaola, Lorenzo D'Amico e Giuseppe Russo; Giuseppe D'Agata, Ignazio Sapienza, Vito e Salvatore Bella, Salvatore Guerrera, a Viagrande, Ninu Campanile; Alfio Rapisarda (pilu russu) e il figlio Paolo (Paulicchiu) ad Aci Sant'Antonio;  Sebastiano Russo (frasciàmi) di Paternò; Giuseppe Parisi a Scordia.
Per la pittura dei carretti si ricordano: Salvatore Lombardo di Scordia; Carmeni Antonino di Belpasso; Saro Vittorio (1882-1962) e il suo allievo Antonino Leotta (1893-1956) e il genero Giuseppe Soldano, Vincenzo Ciaramella (1917-?), Alfio Virgillito (1920-1983), Vincenzo Anicito (1923, Nzuddu Anicitu), in Paternò; Vito Giuffrida (Don Zuddu u Pintu), Carmelo Chines (u cuttu) e figli Giuseppe e Rosario, Francesco Fisichella, di Catania; Vincenzo Zappalà, Gaspare Zappalà, Giuseppe Maugeri, che fu anche maestro di Giuseppe Zappalà (Pippinu “u surdu”), nella cui bottega si formarono il figlio Antonio (‘Ntoni) e, qualche decennio prima, Domenico Di Mauro (1912, “Minicu u pitturi”), Micio Puglisi, Nerina Chiarenza, in Aci Sant'Antonio. A Viagrande lavora Mauro Giuffrida detto perivancu. Infine, Giovanni Mascali, ("Giuvanni u pintu", allievo di Francesco Distefano), un altro colosso della pittura di scuola catanese, ricordato tra i più bravi da Domenico Di Mauro.
Sulla scia dei maestri, oggi troviamo Alice Valenti, Salvo Sapienza, Damiano Rotella di Riposto, Maria Pia Cristaldi, Maria Luisa Ferraro, Salvo Nicolosi, Gaetano Di Guardo ….
Tra i maestri artigiani di armiggi, bardature, selle e finimenti artistici si ricordano: Giuseppe Blandini, Mario Giuffrida, Giovanni Guglielmino e il figlio Rosario, Sebastiano Truscello, Orazio Nicotra, Sebastiano e Salvatore Pastura, i due Saro Grasso (nonno e nipote), Gaetano Basile, Orazio Zito, Serafino Sciuto, Giovanni Mascali, Pippino Grasso (siddunaru), Orazio Galvagno, Pietro La Farina, Pietro Longo, Sebastiano Pedicone (già pittore di carretti, allievo di Giovanni Mascali), Raimondo Ferlito, Don Gaetano Napoli, Carmelo Puleo di Belpasso; Giuseppe e Nino Soldano; Eugenio Tomasello, Alfio Villano (1900-1989), Giovanni Sorbello (1927-1987) e il suo allievo Pippino Mazzamuto (1922-1998?), per la scocca (struttura portante), in Paternò.
Oggi per i finimenti troviamo Franco Giustolisi (nipote di Politano), in Lineri.

Per ulteriori notizie vedi "Elenco degli artigiani costruttori dei carretti siciliani che hanno operato in provincia di Catania".

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Il carretto ai giorni nostri

Con l’avvento dei mezzi di trasporto motorizzati (lambrette, furgoncini e camions) i carretti perdono la loro importanza, divenendo pezzi di antiquariato come dice il poeta favarese Giuseppe Casà in “U carrettu”: “Ora cangiaru i tempi e lu carrettu /resta a l’agnuni e si fa mpurrìri, /pari carogna mmezzu a li liùna, / ca un serbi a nenti e nuddu lu talìa,”
Quando il carretto perde la sua funzione di mezzo di trasporto, i pittori trasferiscono le loro capacità decorative alla motoape (lapa), vespa, fiat 500. E quando queste spariscono dalle strade, si va a ricercare altrove il modo di mantenere in vita una così radicata tradizione artistica.

Le motivazioni, che spinsero a creare il “carretto siciliano” sono ancora vive in una parte della popolazione, perché esso fa parte della identità isolana. Il carretto siciliano è quindi associabile nell'immaginario collettivo alla Sicilia perché non ne esprime solamente un elemento di folklore, ma ne esemplifica un carattere. La committenza è cambiata. Nel parco clienti figurano architetti e acquirenti stranieri, musei ed enti locali.

Al carretto siciliano è toccato reinventarsi in mille modi (le ruote hanno scoperto l’elettricità lasciandosi appendere a mo’ di lampadario; i pannelli hanno imparato a competere con quadri e arazzi sulle pareti di alberghi e residenze private, e le aste sono finite per farsi contendere come pezzi da collezione).

Qualche sponda adorna i salotti o le bancarelle delle feste. Il carretto siciliano, dunque, è semplicemente relegato ad una funzione decorativa. Ma la storia continua, vivissima, allegra e luminosa, come gli innumerevoli paesaggi dell'Etna.

   

 

Oggi la costruzione dei carretti e l'esecuzione dei caratteristici dipinti è continuata con passione solo da pochi maestri, che hanno deciso di trasmettere alle future generazioni l'arte di costruire i carretti, insegnando in alcune scuole per far sì che questa forma d'arte non muoia con loro.
Ogni esemplare è unico nel suo genere e testimonia la passione dell'artista che, pur rimanendo spesso anonimo, esprime lo spirito creativo di tutto un popolo.

Oggi il carretto è quasi scomparso, ma resta pressoché intatto tutto il fascino che riesce ad esercitare in chi ha la fortuna di poterne ammirare i dettagli, rappresentando l'oggetto più conosciuto e significativo dell'arte popolare siciliana.

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                        Sportello posteriore (puttèddu                                                                      Sponda fissa (masciddaru)

   

      

                                                                       Decorazione di riquadro (scaccu) delle sponde (masciddaru)

  

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